Giuseppe De Sando – “Via Scipio Sighele (Sociologo)”

(Sociologo)

Girammo spesso quei giorni attorno a via Sighele, io e il mio amico, all’inizio del liceo, appena scoprimmo che Liliana, la più bella della classe, abitava da quelle parti.

Ricordo che al suo sfociare su via Collatina era assente la lastra di marmo con sopra inciso a bassorilievo colorato in nero il toponimo che però dopo un po’ scolorisce, rendendone impossibile la decifrazione anche da breve distanza. Così, dopo averla cercata invano, la prima volta ci decidemmo a chieder numi al primo passante dalla fisiognomica affidabile; ma non dovevano esserlo le nostre poiché questi neanche ci rispose, e fra coloro che poi si degnarono di farlo, neppure quelli che vi entravano e uscivano seppero dirci dove si trovasse. Volevano preservarne l’anonimato ed erano gelosi della nostra compagna, era evidente. Per quanto vi scorrazzassero già da allora le automobili, questa strada privata e senza negozi diffondeva un senso di pace che ci affascinò. Le persone, nel transitarci, mantenevano un volume di voce più basso, camminavano più lente, si sentiva meno lo smog e v’era una maggiore presenza di fiori e di piante. Ci parve inevitabile che lei vivesse proprio lì.

A metà del suo tracciato s’apriva uno slargo stupefacente con un giardino di piante tropicali dalle ampie foglie che andava innalzandosi pensile rispetto alla strada, con un grosso pino e uno strano abete con il ciuffo a ombrello, che svettavano fra i palazzi, strafottenti. Non vidi mai nessuno profanare quello spazio, neppure ai bambini era concesso giocarci. Credo fosse un miraggio.

Liliana i primi anni snobbò con ferocia tutti i maschi della classe, al massimo ci concedeva di osservarla distante in compagnia di liceali più grandi, personaggi che ostentavano folte capigliature, così curate nella loro apparente trasandatezza e corroborate da un omologo impegno politico che a lei risultavano senza dubbio a ragione più attraenti di noi. Si rivelarono invece degli individui nei quali sia l’impegno che la trasandatezza erano finalizzati a poter rimorchiare con maggior facilità. Tutti noi ragazzi soffrivamo di queste scelte e covammo una misoginia (senz’ancora aver studiato Schopenhauer) che si rivelò positiva almeno per renderci quei primi anni assai affiatati.

Sull’altra estremità la strada terminava in un prodigioso richiamo della campagna: di fronte, oltre un parapetto, era infatti possibile ammirare appezzamenti di contadini che si estendevano a perdita d’occhio con divisioni geometriche degne di Mondrian, giacenti di almeno due piani al di sotto del livello stradale. Girando invece a sinistra si giungeva in un’altra area verde il cui ingresso era celebrato da cinque eleganti cipressi nelle cui chiome misteriose ogni volta che ci passavo avevo voglia di rifugiarmi. Era lì accanto che abitava Remo, un altro forzato compagno di classe e uno dei più spassionatamente disprezzati del liceo. Pure io lo classificai fin dall’inizio come un essere banale, anche perché era il più secchione, ma poiché suonava l’organo (molto male) in una chiesa dello stesso quartiere, mi offrì lo spunto per approfondire (sui dischi) l’opera organistica di Bach. Lo andavo ad ascoltare la domenica mattina durante le prove, prima della messa, e ad ogni stecca che commetteva o passaggio che saltava perché impossibile per lui da eseguire, soffrivo in silenzio e per la durata d’una Fuga mi diveniva simpatico.

Negli ultimi due anni di liceo avvenne il miracolo: ci si avvicinarono teneramente tutte le ragazze. A noi fece comodo pensare che ci considerassero più maturi, degni infine di essere trattati umanamente, ma il cinismo maturato, lui sì, durante questo ben più lungo intervallo di tempo mi porta a inferire d’esser stato il vederci tre anni di seguito quasi ogni giorno che per pura empatia le spinse a provar compassione nei nostri confronti. Liliana mi concesse perfino il privilegio di poterle spedire delle cartoline durante le vacanze d’estate. Non esistevano ancora i cellulari e io provavo piacere a scrivere frasi melense con calligrafia minuta su quegli obsoleti rettangoli di cartone. Godevo poi dell’attesa al pensiero che le avrebbe ricevute e che i suoi occhi verdi si sarebbero concentrati nel decifrare qualche cosa di mio.

Un anno, forse il quarto, al rientro scolastico, nel fatidico primo giorno di scuola, mi si avvicinò sussurrandomi riconoscente che la mia cartolina l’aveva aiutata a star meglio. Capii che le era servita come palliativo a qualche sua avventura estiva terminata male e così mi pentii d’avergliela spedita. Ma l’anno dopo gliene mandai un’altra…

***

Dopo quasi quarant’anni son tornato in via Sighele. È stato pochi giorni fa, in una serata mite nonostante l’inverno incombente. Non sapevo neanch’io cos’ancora cercassi in quel luogo. Così ho passeggiato di nuovo fra quei portoni e quelle ringhiere che separano vasti cortili dalle scale monumentali, costellati di statue alle ninfe impudiche non di eccelsa fattura ma che ugualmente rivolgono il dorso trionfante di natiche sbrecciate a passanti assuefatti; e solo stavolta, col buio, ho fatto caso a quei numeri civici con le cifre illuminate d’una luce color rosso sangue.

Giungo ancora con lentezza all’altro estremo della via e mi appoggio sognante come un tempo al parapetto. E noto gli orti violentati da elefantiaci pilastri, atti a sostenere l’atroce novità della tangenziale Roma-L’Aquila col suo traffico ininterrotto, brusio di fondo della Terra. A destra, più in alto, il lucore dei Monti Albani innevati sembra irradiare algido le antenne paraboliche che tempestano i tetti, tuttora di tegole, messe in piedi da contadini oramai civilizzati. Dai comignoli che per inedia si sgretolano accanto ad esse non esce più fumo bianco emulo di conclavi familiari: quelle case son da tempo scaldate da frenetici condizionatori fissati sui muri esterni, digradanti e tutti in serie. Il grigio indistinto che scorgo al loro interno sono le ventole radiali che ruotando competono con gli pneumatici dell’autostrada sullo sfondo e che fanno loro da pendant. Dei fumi diversi li vedo però in fondo, che escono dalle basi di quei pilastri, neri e al miasma di plastiche combuste: è là intorno che sono accampati gli zingari con tende e suppellettili di colore. Li si vede partire da lontano trascinando carrelli della spesa dalle ruote sbilenche e zoppicanti.

Stancamente volgo infine uno sguardo a sinistra: al posto dei cinque cipressi sfavilla l’entrata d’un centro commerciale ancora aperto a quell’ora, alto due piani ma più basso di quei magici sempreverdi.

È tempo di percorrere un’ultima volta la mia strada a ritroso per tornarmene a casa. Una vettura di grossa cilindrata lampeggia fastidiosa sollecitandomi a fargli spazio per poter accostare. Nel salire con calma sul marciapiede, vedo uscirne un individuo un po’ tozzo dai capelli lunghi e  tinti di nero. Ha un aspetto che mi sa familiare, mentre sul posto davanti siede ancora una donna che lui per sbaglio chiude dentro puntando pavloviano contro il parabrezza la sua chiave elettronica come un’arma dopo avere in tutta fretta parcheggiato. Anche non essendo più al volante, non spreca il suo tempo poiché conversa enfatico al cellulare. Lei alla fine ne esce imprecando e sbattendo la porta, lui non ci bada e mi rivolge complice lo sguardo, quindi riprende a parlare, poi torna su di me, urla all’altro ‘Un attimino, Jò’ e mi fissa sorridendo. A quel punto sono io a rompere gli indugi per primo, commosso: “Ma tu sei Remo?”. “Si, e tu… tu come stai?”. Intanto la donna incuriosita si avvicina a noi come una vamp con ai piedi rumorosi stivali in pelle nera. Sgrano gli occhi su di lei, un altro miraggio si ripete. Non riesco a trattenere la sorpresa: “Remo, ma lei… lei è Liliana?”. “Eh sì, è Liliana, ed è anche mia moglie! Tu non t’eri accorto di niente l’ultimo anno, ma lasciai Virginia alla fine del quarto per mettermi con lei e quell’altra non doveva saperlo sennò sai in classe che scenate!”. Replico sempre più sbigottito: “Con Virginia? Ma io non m’ero accorto manco di lei…”. “Ah, ma tu eri un caso patologico, vivevi in un mondo tutto tuo. Cosa pensavi, che suonassi solo l’organo? Ce n’erano state pure altre già prima di Virginia, ma adesso è meglio lasciar perdere…”

Lei ormai ci è vicina, le porgo la mano emozionato, aggiungendo un semplice ‘Ciao Liliana’. La sua però è inerte, gliela stringo e la sento come l’unico indifferenziato tentacolo d’un polipo morto. Lei reagisce come un automa: “Ciao…, a proposito ma tu com’è che ti chiamavi?”. Dissimulo la tristezza della situazione forzandomi a un sorriso. Mi viene in soccorso Remo, che declama stentoreo ciò che per lui doveva essere il mio nome e cognome. Peccato che il tempismo eccessivo gli faccia commettere un’errata contaminatio, spacciando per mio il nome dell’unico collega bocciato alla maturità. Lo correggo bonariamente continuando a mantenere il sorriso. Lei invece coglie questa opportunità per scagliarglisi contro, rimproverandogli di continuare a far sempre il primo della classe. È chiaro che qualcosa non va, fra i due.

Cambio argomento chiedendogli se ha continuato con l’organo. Sghignazza sprezzante della mia ingenuità, mi dice che non gli era mai piaciuto suonarlo, lo faceva per contentare il prete titolare della parrocchia molto amico dei genitori, dal quale essi speravano un non ben chiaro ‘qualcosa’.

Chiedo allora se loro due abitano ancora lì al Collatino. “Macché scherzi, dopo il mariage siamo scappati a Casalpalocco. Qui agli sprofondi ci son rimasti gli amici di gioventù e stasera facciamo appunto una rimpatriata”.

Ricevo uno squillo provvidenziale da mio figlio per un problema di geometria che non riesce a risolvere. Ecco l’occasione per salutare l’ex-organista dalle Toccate incompiute e quell’acida piovra in decomposizione della moglie. Ci auguriamo ipocritamente di rivederci mentre Liliana s’è appartata per scrivere un sms e mi fa un cenno distratto di saluto senza neppure avvicinarsi.

Mentre si allontanano sento lei che lo rimbecca:  “Ma che t’è saltato ‘n mente de fermatte a salutà quello? Potevi fa’ finta de nun riconoscello, dopo tutti st’anni che nun l’avemo più visto! Già nun lo sopportavo prima, figuramose adesso”.

Giurerei che l’abbia detto col volume ideale affinché potessi udirla. Anche lui replica in modo ch’io riesca a sentire: “Ma n’hai visto come s’è ridotto, poraccio? S’aggira tutto solo come ‘n matto da ‘ste parti. Che pena che me fanno ‘gni vorta che so’ costretto a vedelli, quelli rimasti qua…”.

È la mazzata finale. Ho bisogno di sedermi sul bordo d’una fontana al centro della quale troneggia un beffardo Poseidone che sostenuto da guizzanti Tritoni, col tridente infilza Polibote. Forse così, ispirandomi a quella posa, troverò la forza per risolvere almeno il problema di mio figlio.

Da quella visuale noto meglio tutte le rette che s’intersecano e si sovrappongono sullo sfondo: l’autostrada e i suoi pilastri di dorico minimalismo, i neri tralicci dell’alta tensione che si affusolano romboidali verso il cielo, il canneto in primo piano i cui giunchi affiorano in metronomica isocronia  lungo il parapetto. E attraverso quelle intricate e distanti geometrie all’improvviso tutto m’appare così assurdo e insignificante. Così anche il problema di mio figlio e quella stessa scuola che glielo ha imposto e che lo costringe a certe mostruose, umane coabitazioni.

A tratti nell’acqua sento cadere qualche foglia ma il liquido dovrà possedere certamente una qualche virtù taumaturgica poiché essa non marcisce ma anzi appare più vitale che sul ramo. Vedo improvvisamente galleggiare e venirmi incontro una mantide religiosa. È morta, rannicchiata su un lato come se dormisse, mentre segue soave il flusso della corrente. Non ne ho come al solito la prova, ma mi dico che se è stato lì dentro ch’è avvenuto il suo trapasso, essa sarà trasvolata di sicuro in paradiso.

 

 

 

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